giovedì, luglio 30, 2009

La leggenda di Alberto da Giussano

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Dietro la leggenda

La leggenda di Alberto da Giussano

Storia e cronaca di un’invenzione a cui credono gli elettori della Lega

Sarà opportuno comunicare a Umberto Bossi e allo stato maggiore della Lega che Alberto da Giussano è frutto di un’invenzione, come Sandokan o Gianburrasca, e che il giuramento di Pontida non ha mai avuto luogo.
In un tempo in cui si profila l’arrivo sui teleschermi del kolossal di Renzo Martinelli sulla battaglia di Legnano, fortemente voluto dai dirigenti della Lega (che, a una breve anteprima – dicono le cronache –, si sono commossi) è bene fare la parte della storia e quella della retorica precisando che appunto di leggenda si tratta, come il Sacro Graal o l’oro del Reno.
Non vi è traccia, infatti, nelle cronache serie dell’epoca, della Compagnia o Società della Morte – i novecento cavalieri comandati dal Giussano e che avrebbero fatto mirabilia nella battaglia di Legnano, questa sì effettivamente svoltasi, 29 maggio 1176 – e del loro capo, dei trecento fanti del Carroccio e dei trenta carri falcati che si dice abbiano contribuito alla sconfitta del Barbarossa.
Sembra per contro che le truppe imperiali siano state sbaragliate da compagnie di arrabbiatissimi cittadini, per lo più appiedati e muniti di lance e forconi, che difendevano la propria vita e i propri beni dall’esosità dei balzelli della Casa di Hohenstaufen.
I novecento militi della Società della Morte, secondo la favola, avrebbero giurato di combattere contro l’imperatore in ogni situazione, di non darsi mai alla fuga e di tagliare la testa a chi avesse disertato. Ma per la verità in nessun serio documento si registra la loro presenza, né tanto meno la loro partecipazione nella citata, storica battaglia.
Fanno venire alla mente un racconto satirico di Giancarlo Fusco contenuto nel libro Le rose del ventennio, in cui si parla di un gruppo di arditi votati, nell’ultima guerra, alle imprese più spericolate e alla morte, sotto il comando del maggiore Ferro Maria Ferri. Essi però non trovavano impresa abbastanza audace per loro e trascorrevano, destinati a un sacrificio che non veniva mai, le serate nei bordelli e nelle taverne. I primi elementi della leggenda al cui centro si trova Alberto da Giussano sono stati introdotti almeno centocinquant’anni dopo gli avvenimenti in una “cronica” del milanese fra’ Galvano Fiamma, definito in tempi posteriori «compilatore negligente, credulo, privo di senso critico». E fortemente interessato a far recuperare un ruolo di primo piano al suo partito, dei nobili, la cui cavalleria (i novecento della Società della Morte?) in scontri preliminari ai veri e propri combattimenti, indecorosamente era stata messa in fuga degli avversari.
Con la conseguenza di indurre i sostenitori dell’altro partito, quello dei popolani, a porre l’accento sui trecento asserragliati attorno al Carroccio come quasi esclusivo fattore di vittoria sugli imperiali.
Cronisti successivi hanno ripreso le varie informazioni senza darsi la pena di accertarne la veridicità.
Sta di fatto che dell’esistenza di Alberto e dei suoi fratelli Otto e Rainerio – descritti tutti, dagli apologeti, come di alta statura e di aspetto imponente – non fa cenno nessuno fra gli studiosi veri del Medioevo (per esempio il rinnovatore delle ricerche nel ramo Ludovico Antonio Muratori), ma anche alcuno fra i cronisti dell’epoca, come Bonvesin de la Riva, o successivi, come Tristano Calco. E a ben 336 anni dallo scontro di Legnano, nel 1503 un altro scrittore, Bernardino Corio, parla per la prima volta del cosiddetto giuramento di Pontida, al quale affabulazioni letterarie successive (per tutte la Canzone di Legnano di Giosué Carducci, insieme con altre epopee risorgimentali e addirittura un’opera di Giuseppe Verdi) attribuirono un ruolo che non aveva mai avuto. La Lega lombarda infatti, all’epoca, non vide la luce a Pontida il 7 aprile 1167 con la solenne promessa dei Comuni coalizzati, cosa che non risulta da alcuna ricerca scientificamente apprezzabile, ma a Bergamo l’8 marzo di quell’anno.
Molte delle informazioni che stiamo fornendo sono contenute nella ricerca di un erudito sacerdote brianzolo, don Rinaldo Beretta, probabilmente il più autorevole storico della sua terra, è stato detto, dopo Ignazio Cantù (a sua volta fratello dello scrittore Cesare). In Il giuramento di Pontida e la Società della Morte nella battaglia di Legnano (Como, 1970), don Beretta – scomparso a cento anni nel 1976 – ha analizzato tutti gli elementi che inducono a mettere fortemente in dubbio l’esistenza di Alberto di Giussano, della Società e del Giuramento. Che poi fioriscano qua e là i monumenti al presunto guerriero è tutt’altra storia, in un paese di antica retorica come il nostro nel quale si affiggono targhe in memoria di personaggi inesistenti, come, per esempio, un tal Giovanni Capocci ricordato in una cittadina abruzzese per una mai avvenuta partecipazione alla disfida di Barletta (13 febbraio 1503). Si favoleggia, da noi, di ampolle di acqua del Po e di razza padana: di quest’ultima la sola conosciuta in natura comprende buoi e mucche, neppure tori (la cui varietà più pregiata è quella marchigiana). Martinelli, quindi, con il suo kolossal può difficilmente pretendere di rifarsi, come ha dichiarato, alle proprie radici lombarde, poiché le radici sono cose vere e non, come in questo caso, una leggenda che tiene in ostaggio un decimo dell’elettorato. Si può sperare, per contro, che il prodotto appartenga alla serie di piacevoli realizzazioni da fiction, con buona pace di tutti e, se proprio le sta bene, con soddisfazione della Lega. Alla quale nessuno può negare il diritto di, inutilmente, commuoversi.

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