domenica, gennaio 15, 2012

La guerra è pace

Tratto da "1984" di George Orwell

«Capitolo III: La guerra è pace
La divisione del mondo in tre grandi superstati era un evento prevedibile, e di fatto venne previsto prima della metà del XX secolo. In seguito all'assorbimento dell'Europa da parte della Russia, e dell'Impero Britannico da parte degli Stati Uniti, erano già nate due delle tre potenze oggi esistenti. La terza, l'Estasia, si formò come entità autonoma dopo un ulteriore decennio di lotte alquanto confuse. Le frontiere fra i tre superstati sono in alcune aree arbitrarie, in altre variano a seconda di quanto producono gli eventi bellici, ma in generale sono fissate da precise coordinate geografiche. L'Eurasia comprende l'intera Europa settentrionale e i territori dell'Asia, dal Portogallo allo stretto di Bering; l'Oceania abbraccia le Americhe, le isole atlantiche, ivi comprese le Isole Britanniche, l'Australasia e le regioni meridionali dell'Africa; l'Estasia, meno estesa delle altre due potenze e con una frontiera occidentale meno definita, comprende la Cina e i paesi a sud di essa, le isole del Giappone e un'ampia seppur fluttuante sezione della Manciuria, della Mongolia e del Tibet.
In una combinazione costantemente variabile, questi tre superstati sono in una condizione di guerra perenne. La guerra, però, non è più una lotta disperata e all'ultimo sangue, come avveniva nei primi decenni del XX secolo. Si tratta invece di conflitti con scopi limitati fra belligeranti incapaci di distruggere il nemico, che non hanno motivi materiali per combattersi e che non sono divisi da differenze apprezzabili sul piano ideologico. Ciò non significa che la condotta di guerra o l'atteggiamento stesso nei confronti della guerra siano diventati meno cruenti o più leali.
Al contrario, in tutti i paesi l'isteria bellica è continua e generalizzata, e azioni come lo stupro, il saccheggio, il massacro di bambini, la riduzione di intere popolazioni in schiavitù, le rappresaglie nei confronti dei prigionieri (che vengono perfino bolliti o bruciati vivi), sono considerate normali e anzi meritorie, sempre che a commetterle non sia il nemico.
Su un piano concreto, comunque, la guerra coinvolge solo un numero esiguo di persone, per la massima parte truppe altamente specializzate, e causa perdite relativamente limitate. I combattimenti, quando ci sono, si verificano in località di frontiera la cui ubicazione è praticamente ignota all'uomo comune, o intorno alle Fortezze Galleggianti poste a guardia di zone strategiche in mare aperto. Nei centri abitati la guerra non significa altro che continue riduzioni dei beni di consumo e dalla caduta occasionale di bombe-razzo che possono causare qualche dozzina di vittime. In realtà, la guerra ha cambiato carattere. Per essere più precisi, è mutato l'ordine gerarchico dei motivi per cui si combatte una guerra. Alcune motivazioni già presenti su piccola scala nelle grandi guerre dei primi decenni del XX secolo sono ora predominanti e sono scientemente riconosciute e perseguite come tali.
Per comprendere la natura della guerra attualmente in corso (in realtà, a dispetto dei diversi schieramenti che si formano a distanza di pochi anni, si tratta sempre della stessa guerra), è innanzitutto necessario capire che essa non può avere una conclusione nel senso proprio del termine.
Nessuno dei tre superstati potrebbe essere conquistato definitivamente, nemmeno se gli altri due si coalizzassero. Le loro strutture sono infatti troppo simili, e troppo forte è l'ostacolo costituito dalle difese naturali.
L'Eurasia è protetta dal suo vastissimo territorio, l'Oceania dall'Atlantico e dal Pacifico, l'Estasia dalla prolificità e laboriosità dei suoi abitanti. In secondo luogo e materialmente parlando, non vi è più nulla per cui combattere. Con l'avvento delle economie autosufficienti, in cui la produzione e il consumo dei beni sono strettamente connessi fra loro, l'aspra
lotta per accaparrarsi nuovi mercati, che era un tempo una delle cause principali dei conflitti armati, è finita, mentre l'accesso alle materie prime non è più una questione di vita o di morte. In ogni caso, ognuno dei tre superstati è vasto abbastanza per produrre al suo interno tutto ciò di cui ha bisogno. Se ammettiamo che la guerra abbia uno scopo economico diretto, esso non può che consistere nella conquista di forza lavoro. Tra le frontiere che separano i tre superstati, pur non appartenendo
in modo permanente ad alcuno di essi, è possibile tracciare una sorta di quadrilatero i cui angoli sono Tangeri, Brazzaville, Darwin e Hong Kong, che ospita circa un quinto della popolazione terrestre. È per il possesso di queste regioni fittamente popolate e della calotta polare nordica che i tre superstati sono in conflitto perenne, ma nessuna delle tre potenze riesce mai ad avere il controllo completo dell'area così definita.
Parti di essa cambiano continuamente di mano, ed è l'eventualità di riuscire a impadronirsi di questa o quella sezione con repentini voltafaccia a dettare i continui mutamenti nella politica delle alleanze.
Tutti i tenitori contesi contengono minerali preziosi, alcuni anche prodotti vegetali importanti, come la gomma, che sotto climi più rigidi è necessario fabbricare sinteticamente mediante procedimenti più o meno costosi. Soprattutto, però, essi contengono una riserva inesauribile di manodopera a basso costo. Chiunque controlli l'Africa equatoriale o i paesi del Medio Oriente, o l'India meridionale, o l'arcipelago indonesiano, può anche disporre dei corpi di decine o centinaia di milioni di lavoratori sottopagati e rotti alla fatica. Gli abitanti di queste regioni, ridotti più o meno esplicitamente alla condizione di schiavi, passano di continuo da un conquistatore all'altro e sono utilizzati, come avviene per il carbone o il petrolio, nella corsa agli armamenti, all'accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera, quindi in un'altra corsa agli armamenti, all'accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera e via discorrendo, all'infinito. Va osservato che i combattimenti si svolgono quasi sempre attorno ai confini delle aree contese. Le frontiere dell'Eurasia si spostano avanti e indietro fra il bacino del Congo e la costa settentrionale del Mediterraneo; le isole dell'Oceano Indiano e dell'Oceano Pacifico sono continuamente perdute e riconquistate dall'Oceania o dall'Estasia; in Mongolia la linea divisoria fra l'Eurasia e l'Estasia non è mai fissa; attorno al
Polo, tutti e tre i superstati rivendicano il possesso di enormi tenitori, per la gran parte deserti e inesplorati. L'equilibrio fra i superstati resta più o meno stabile e il nucleo territoriale di ciascuno di essi rimane inviolato.
Va detto inoltre che il contributo, in lavoro, delle popolazioni sfruttate attorno all'equatore non è in ultima analisi indispensabile per l'economia mondiale. Queste popolazioni non aggiungono nulla alla ricchezza mondiale, dal momento che tutto ciò che producono è utilizzato per fini bellici e che lo scopo di ogni conflitto è sempre quello di poter partire da posizioni di vantaggio nella guerra successiva. Ciò che viene prodotto da queste popolazioni ha l'effetto di accelerare il ritmo di uno stato di guerra ininterrotto, ma se anche non esistessero, le strutture sociali del mondo intero e i processi attraverso cui tali strutture si conservano resterebbero sostanzialmente immutati.
Lo scopo fondamentale della guerra moderna (che, conformemente ai principi del bipensiero, è allo stesso tempo affermato e negato dalle teste pensanti del Partito Interno) è quello di consumare ciò che producono le macchine senza che ne risulti innalzato il tenore di vita. A partire dalla fine del XIX secolo è stato latente, nella società industriale, il problema di come utilizzare i beni di consumo in eccesso. Al giorno d'oggi, quando sono pochi quelli che hanno cibo a sufficienza, un problema del genere, ovviamente, non è urgente e verosimilmente sarebbe stato così anche se non si fosse ricorso a nessun processo di distruzione programmato a tavolino. Paragonato a quello che esisteva prima del 1914, e ancor più se lo si confronta col tipo di futuro che gli uomini di quel tempo speranzosamente si figuravano, il mondo contemporaneo è una landa desolata, un mondo affamato e in rovina. Agli inizi del XX secolo, la visione di una società futura ricca, opulenta, ordinata ed efficiente — un mondo asettico e luccicante, fatto di vetro, acciaio e cemento bianchissimo — era parte integrante della coscienza di qualsiasi persona alfabetizzata. La scienza e la tecnica si sviluppavano a una velocità prodigiosa e sembrava ovvio presupporre che un simile processo non si sarebbe arrestato. Tutto ciò, invece, non si verificò, in parte a causa dell'impoverimento indotto da una lunga serie di guerre e rivoluzioni, in parte perché il progresso scientifico e tecnologico dipendeva da una visione del mondo . empirica, che non poteva sopravvivere in una società strettamente irreggimentata.
Oggi il mondo è complessivamente più primitivo di quanto non fosse cinquant'anni fa. Alcune aree depresse hanno migliorato i loro standard e diversi strumenti tecnici, sempre connessi in qualche modo alla guerra e allo spionaggio poliziesco, hanno conosciuto un certo sviluppo, ma la capacità di sperimentare e di inventare si è praticamente arrestata, mentre le devastazioni prodotte dalla guerra atomica degli anni Cinquanta non sono mai state risanate del tutto. Ciononostante, i pericoli inerenti le macchine non sono affatto scomparsi. Quando le macchine fecero la loro comparsa, ogni essere pensante maturò la convinzione che fosse scomparsa la necessità di qualsiasi lavoro pesante e che contestualmente fosse svanita ogni necessità di preservare l'ineguaglianza fra gli uomini. Se l'impiego delle macchine fosse stato direttamente indirizzato a tal fine, nell'arco di alcune generazioni mali come la fame, il superlavoro, la sporcizia, l'analfabetismo e le malattie sarebbero stati eliminati. Ed effettivamente, pur non venendo usate a tal fine, ma in conseguenza di una specie di processo automatico (producendo ricchezza, cioè, che talvolta risultava impossibile non distribuire), per un periodo di circa cinquant'anni compreso fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, le macchine innalzarono moltissimo il generale tenore di vita.
Era però altrettanto chiaro che un incremento generalizzato del benessere avrebbe avuto come effetto indesiderato la distruzione di una società organizzata gerarchicamente. Già in un mondo in cui tutti avessero lavorato solo poche ore, avuto cibo a sufficienza, vissuto in case fornite di
bagno e frigorifero, posseduto un'automobile o addirittura un aereo, sarebbero scomparse le forme di ineguaglianza più ovvie e forse più importanti. Una volta, poi, che una simile condizione fosse divenuta generale, la ricchezza non sarebbe stata più un segno di distinzione fra un individuo e l'altro. Era possibile, naturalmente, immaginare una società in
cui la ricchezza, intesa come possesso di beni personali e di lusso, venisse distribuita equamente, nel mentre il potere restava nelle mani di una minuscola casta privilegiata, ma nella pratica una società del genere non avrebbe potuto rimanere stabile. Se, infatti, il benessere e la sicurezza fossero divenuti un bene comune, la massima parte delle persone che di norma sono come immobilizzate dalla povertà si sarebbero alfabetizzate, apprendendo così a pensare autonomamente; e una volta che questo fosse successo, avrebbero compreso prima o poi che la minoranza privilegiata non aveva alcuna funzione e l'avrebbero spazzata via. Sul lungo
termine, una società gerarchizzata poteva aversi solo basandosi sulla povertà e sull'ignoranza. Ritornare al passato agricolo, come avevano auspicato alcuni pensatori all'inizio del XX secolo, era una soluzione impraticabile. Cozzava infatti contro quella tendenza alla meccanizzazione
divenuta pressoché istintiva in quasi tutto il mondo; inoltre, tutti i paesi che non si fossero sviluppati industrialmente sarebbero rimasti indifesi da un punto di vista militare e destinati a essere dominati, direttamente o indirettamente, dai paesi rivali.
D'altra parte, mantenere le masse in uno stato di povertà comprimendo la produzione delle merci non rappresentava una soluzione soddisfacente. Ciò avvenne di fatto e su larga scala durante la fase finale del capitalismo, più o meno nel periodo compreso fra il 1920 e il 1940. Si consentì
all'economia di molti paesi di stagnare, la terra non venne coltivata, le ricapitalizzazioni arrestate, ampi strati della popolazione mantenuti senza occupazione, sorretti unicamente dalla carità dello Stato. Anche questo sistema, però, ebbe come logica conseguenza un indebolimento sul
piano militare e, poiché le privazioni che imponeva erano inutili, l'opposizione a esso divenne inevitabile. Il problema era come riuscire a far girare le ruote dell'industria senza incrementare la ricchezza reale del
mondo. I beni di consumo dovevano essere prodotti, ma non distribuiti.
E in effetti l'unico modo per raggiungere un simile obiettivo era uno stato di guerra perenne.
Scopo essenziale della guerra è la distruzione, non necessariamente di vite umane, ma di quanto viene prodotto dal lavoro degli uomini. La guerra è un modo per mandare in frantumi, scaraventare nella stratosfera, affondare negli abissi marini, materiali che altrimenti potrebbero essere usati per rendere le masse troppo agiate e, a lungo andare, troppo intelligenti. Anche quando gli armamenti non vengono distrutti, la loro produzione continua a essere un mezzo conveniente per utilizzare la forza lavoro senza produrre nulla che sia possibile consumare. Una Fortezza Galleggiante, per esempio, coinvolge una quantità di maestranze che sarebbero sufficienti a costruire centinaia di navi mercantili. Infine, senza che abbia arrecato benefici a chicchessia, viene smantellata e si costruisce un'altra Fortezza Galleggiante, facendo ricorso a ulteriori ed enormi energie umane. In linea di principio, lo sforzo bellico è pianificato
in modo da divorare ogni bene eccedente i bisogni fondamentali della popolazione. In effetti i bisogni della popolazione sono costantemente sottovalutati, con la conseguenza che vi è una carenza cronica di una buona metà dei beni necessari, ma a ciò si guarda come a un vantaggio.
È frutto di un preciso progetto politico mantenere anche i gruppi sociali privilegiati in un regime prossimo alla ristrettezza, perché una condizione di penuria generalizzata rafforza l'importanza dei piccoli privilegi, accentuando così le differenze fra un gruppo e l'altro. A fronte del tenore di vita dei primi anni del XX secolo, perfino un membro del Partito Interno conduce un'esistenza austera quanto laboriosa. Ciononostante, quei pochi lussi di cui gode, l'appartamento spazioso e ben arredato, la migliore qualità degli abiti, del cibo, delle bevande, del tabacco, i due o tre domestici, l'automobile o l'elicottero privati lo collocano in un altro mondo rispetto a un membro del Partito Esterno. A loro volta, i membri del Partito Esterno godono di analoghi vantaggi rispetto a quelle masse sommerse che chiamiamo "prolet". L'atmosfera sociale è quella di una città in stato d'assedio, in cui il possesso di un pezzo di carne equina fa la differenza tra la ricchezza e la povertà. Nello stesso tempo, la consapevolezza di essere in guerra, e quindi in pericolo, fa sì che la concentrazione di tutto il potere nelle mani di una piccola casta sembri l'unica e inevitabile condizione per poter sopravvivere.
Come si vedrà, la guerra non solo realizza l'indispensabile distruzione, ma lo fa rendendola accettabile da un punto di vista psicologico. In linea teorica, sarebbe semplicissimo impiegare la forza lavoro in eccedenza del mondo intero costruendo templi e piramidi, scavando fosse e poi riempiendole di nuovo, o addirittura producendo ingenti quantità di beni per poi darvi fuoco. Tutto ciò, però, garantirebbe solo la base economica di una società organizzata gerarchicamente, non quella emotiva. Ciò dicui qui si discute non è il morale delle masse, i cui atteggiamenti sono irrilevanti finché le si mantiene occupate, ma il morale del Partito stesso.
Perfino dal più umile membro del Partito ci si aspetta che, entro limiti ben definiti, sia abile, attivo e addirittura intelligente, ma è anche indispensabile che sia un fanatico credulo e ignorante, in preda a sentimenti quali la paura, l'odio, l'adulazione e il tripudio orgiastico. In altri termini, è necessario che abbia una mentalità in linea con lo stato di guerra. Nonimporta che la guerra si combatta per davvero e, poiché una vittoria definitiva è impossibile, non importa nemmeno se la guerra vada bene o male: serve solo che uno stato di belligeranza persista. Questa scissionedell'intelligenza, che il Partito chiede ai suoi adepti e alla quale si perviene più agevolmente in un'atmosfera di guerra, è ora quasi generale,ma diviene tanto più accentuata quanto più in alto si sale nei gradi della gerarchia. È proprio nel Partito Interno che l'isteria della guerra e l'odio per il nemico sono più forti. Nella sua qualità di dirigente, è spesso necessario che un membro del Partito Interno sappia che questo o quel particolare relativo alla guerra è falso, in più di un caso può avere coscienza che l'intero conflitto è una mistificazione, che o non esiste affatto o sicombatte per fini del tutto diversi da quelli dichiarati. Una simile consapevolezza è agevolmente neutralizzata dalla tecnica del bipensiero. Nel frattempo nessun membro del Partito Interno vacilla, neanche per un istante, nella sua mistica certezza che la guerra è vera, che avrà per epilogo la vittoria e che l'Oceania sarà la padrona incontrastata del mondo intero.
Tutti i membri del Partito Interno credono in questa prossima conquista come se si trattasse di un articolo di fede. Un simile obiettivo verrà raggiunto o per mezzo di successive conquiste territoriali, da cui discenderà una superiorità assoluta, o in conseguenza della scoperta di qualche nuova arma, alla quale il nemico non potrà contrapporre nulla. La ricercadi nuove armi non conosce soste ed è una delle poche attività residue in cui possa esprimersi una mente creativa o speculativa. Nell'Oceania di oggi la Scienza, come la si intendeva una volta, non esiste più. In neolingua la parola "scienza" manca addirittura. Il metodo empirico, sul quale si basavano tutte le conquiste scientifiche del passato, è in contraddizione coi principi fondamentali del Socing. Ora il progresso tecnologico si realizza solo se quanto esso produce può in qualche modo essere impiegato per ridurre la libertà umana. In tutte le arti che abbiano unaqualche utilità pratica il mondo o si trova in una situazione di stallo, oppure è in fase di regressione. I campi vengono coltivati facendo ricorso all'aratro tirato dai cavalli, mentre i libri sono scritti dalle macchine. E tuttavia nelle questioni di importanza vitale (vale a dire, in tutto ciò che riguarda la guerra e lo spionaggio poliziesco), il metodo empirico viene, se non incoraggiato, tollerato. Il Partito persegue due fini essenziali: conquistare tutta la Terra e distruggere definitivamente ogni forma di libero pensiero. Deve, quindi, risolvere due grossi problemi: il primo consiste nello scoprire, contro la loro volontà, che cosa pensino altri esseri umani, il secondo nel trovare un sistema per uccidere in pochi secondi, con un attacco proditorio, centinaia di milioni di persone. Sono questi icontenuti della ricerca scientifica contemporanea. Oggi esistono due soli tipi di scienziati: da una parte, un essere a metà fra lo psicologo e l'inquisitore, intento a studiare con precisione estrema la mimica facciale, la gestualità, i toni della voce e a sperimentare tutto ciò che induca un essere umano a dire la verità, dai farmaci all'elettroshock, dall'ipnosi alla tortura fisica. Dall'altra, il chimico, il fisico o il biologo, che della sua disciplina specifica utilizza solo quanto serve a togliere la vita. Negli enormi laboratori del Ministero della Pace e in stazioni sperimentali occultate nelle foreste brasiliane o nel deserto australiano o nelle isole più remote dell'Antartide, squadre di esperti sono costantemente all'opera.
Alcuni sono unicamente impegnati nello studiare l'organizzazione di guerre future, altri mettono a punto bombe-razzo sempre più grandi, esplosivi sempre più potenti, sistemi di corazzatura sempre più impenetrabili; altri si sforzano di scoprire gas sempre più letali, di mettere a punto velenosi solubili da produrre in ingenti quantità, in modo da distruggere la vegetazione di continenti interi, o di coltivare germi resistenti a tutti gli anticorpi; altri sono impegnati nella costruzione di un veicolo capace di avanzare sottoterra con la stessa facilità con cui un sottomarino viaggia sott'acqua, o di un aereo autonomo rispetto alla sua base, come una imbarcazione a vela; altri, più temerari, studiano come concentrare e dirigere i raggi solari per mezzo di lenti sospese nello spazio a migliaia di chilometri di distanza dalla Terra o come produrre terremoti e maremoti artificiali sfruttando il calore al centro del pianeta.
Nessuno di questi progetti, tuttavia, riesce a essere attuato, col risultato che nessun superstato conquista posizioni di vantaggio rispetto agli altri due. Ciò che appare maggiormente degno di nota è il fatto che le tre potenze già posseggono nella bomba atomica un'arma che le ricerche in corso difficilmente riusciranno a superare. Anche se il Partito sostiene, com'è sua abitudine, di esserne stato l'inventore, le prime bombe atomiche apparvero all'inizio degli anni Quaranta e furono già usate su larga scala un decennio dopo, quando ne vennero sganciate centinaia sui centri industriali, soprattutto della Russia europea, dell'Europa occidentale e del Nordamerica. I suoi effetti convinsero i gruppi dirigenti di tutti i paesi che il lancio di altre bombe avrebbe significato la fine della società organizzata e quindi del loro stesso potere. A partire da quel momento non furono sganciate altre bombe, anche se non venne sottoscritta né sollecitata alcuna intesa ufficiale. Tutte e tre le potenze continuano a produrre bombe atomiche e a immagazzinarle, nella convinzione che prima o poi si verificherà un evento decisivo che ne imporrà l'uso. Nel frattempo, per un arco di tempo di quaranta, cinquant'anni circa, l'arte della guerra è rimasta al passo. Gli elicotteri si usano oggi più che in passato, i bombardieri sono stati in gran parte soppiantati da proiettili autopropellenti, le navi da guerra, troppo fragili e costrette a un perpetuo movimento, sono state sostituite dalle Fortezze Galleggianti, praticamente inaffondabili, ma in ultima analisi di progressi ce ne sono stati ben pochi. I carri armati, i sottomarini, le mine, le mitragliatrici, perfino i fucili e le bombe a mano, si usano ancora. Inoltre, malgrado le continue carneficine riportate sui giornali e sui teleschermi, sono finite quelle battaglie all'ultimo sangue delle guerre precedenti, in cui in poche settimane morivano centinaia di migliaia o addirittura milioni di uomini.
Nessuno dei tre superatati si lancia mai in avventure che possano implicare il rischio di una seria sconfitta. Quando si intraprende un'azione su larga scala, si tratta di solito di un attacco proditorio lanciato contro un alleato. Non esiste alcuna differenza fra la strategia che le tre potenze seguono o fingono di seguire. Il piano generale, realizzato per mezzo di un intreccio di combattimenti, contrattazioni e tempestivi atti di tradimento, consiste nell'acquisizione di un certo numero di basi che chiudano come in un cerchio questo o quello stato rivale, nella successiva firma di un trattato di pace con detto stato, col quale si resterà in termini di amicizia per un numero di anni sufficienti ad attenuare qualsiasi sentimento di sospetto. Durante questo periodo le testate atomiche potranno essere immagazzinate nei punti strategici, quindi lanciate simultaneamente, con effetti così devastanti da rendere impossibile qualsiasi rappresaglia. Si potrà allora sottoscrivere, in preparazione di un altro attacco, un patto di amicizia con l'altra potenza mondiale. Inutile dire che un progetto del genere è un sogno che non si realizzerà mai. Inoltre, i combattimenti hanno luogo unicamente nelle regioni contese attorno all'equatore e al polo, e in nessun caso si procede a un'invasione del territorio nemico. Ciò spiega per quale motivo alcune frontiere tra i superstati siano aleatorie. L'Eurasia, per esempio, potrebbe conquistare facilmente le Isole Britanniche, che fanno parte della geografia dell'Europa; l'Oceania, per parte sua, potrebbe spingere le proprie frontiere fino al Reno o addirittura fino alla Vistola. Una simile mossa, però, violerebbe il principio, mai dichiarato ma rispettato da ciascuna delle parti, dell'integrità culturale. Se l'Oceania dovesse riuscire a conquistare quelle regioni che una volta erano note col nome di Francia e Germania, si renderebbe necessario sterminarne gli abitanti (un progetto, questo, che porrebbe notevoli problemi pratici) o tentare l'assimilazione di circa cento milioni di persone che, volendoci limitare al solo sviluppo tecnologico, sono su un livello ben diverso da quello dell'Oceania. Il problema si pone nei medesimi termini per tutti e tre i superstati. La loro struttura esige che non vi siano contatti con gli stranieri, con la sola eccezione, comunque limitata, dei prigionieri di guerra e degli schiavi di colore. Perfino l'alleato ufficiale del momento viene visto col massimo sospetto. A parte i prigionieri di guerra, il cittadino qualunque dell'Oceania non vede mai un abitante dell'Eurasia o dell'Estasia, e gli è interdetto l'apprendimento delle lingue straniere. Se gli si consentisse di avere contatti con stranieri, scoprirebbe che sono persone come lui e che la maggior parte di quanto gli è stato detto di loro è pura menzogna. Il mondo chiuso e separato nel quale vive andrebbe in pezzi e potrebbero svanire la paura, l'odio e l'ipocrisia su cui si basa il suo morale. Resta pertanto inteso da tutti i contendenti che la Persia, l'Egitto, Giava o Ceylon possono cambiare cento volte di mano, ma le frontiere principali possono essere attraversate solo dalle bombe.
Tutto ciò sottintende un fatto che non viene mai menzionato esplicitamente ma sul quale si conviene tacitamente e in base al quale si agisce: le condizioni di vita nei tre superstati sono più o meno le stesse. Nell'Oceania il sistema dominante si chiama Socing, in Eurasia Neobolscevismo, mentre per l'Estasia si fa ricorso a un'espressione cinese, di solito tradotta col nome di Culto della Morte, ma che forse si renderebbe meglio con Annullamento dell'Io. Al cittadino dell'Oceania non è permesso di sapere alcunché dei principi che governano gli altri due sistemi, tuttavia gli si insegna a esecrarli come sanguinosi insulti alla morale e al senso comune. In realtà le tre dottrine sono assai simili fra loro, mentre i sistemi sociali che esse informano sono assolutamente identici. Ovunque vigono la medesima struttura piramidale, il medesimo culto di un capo semidivino, la medesima economia che dipende da un continuo stato di guerra e di esso si alimenta. Ne consegue che i tre superstati non solo non possono conquistarsi l'un l'altro, ma non trarrebbero alcun vantaggio se una simile evenienza si realizzasse. Al contrario, finché restano in conflitto fra loro, si sostengono vicendevolmente, come tre covoni di grano. Come al solito, poi, i gruppi dirigenti di tutte e tre le potenze sono al tempo stesso inconsapevoli e coscienti delle loro azioni. Dedicano la loro esistenza alla conquista del mondo, ma sanno anche che è indispensabile che la guerra non cessi mai e che non si raggiunga alcuna vittoria finale. Nel frattempo, il fatto che il rischio di conquiste non esiste, rende possibile quella negazione della realtà che costituisce la caratteristica precipua del Socing e dei sistemi di pensiero che gli si oppongono. È a questo punto necessario ripetere quel che si è detto poc'anzi, e cioè che la guerra, diventando perenne, ha mutato profondamente la propria natura.
In passato la guerra era quasi per definizione qualcosa che prima o poi finiva, in genere sotto forma di vittoria o sconfitta indiscutibili. Nel passato, inoltre, costituiva uno dei sistemi principali attraverso cui le società umane mantenevano un contatto diretto con la realtà. I governanti di tutti i tempi hanno cercato di imporre ai loro sottoposti una falsa visione del mondo, ma non si sono mai potuti permettere di alimentare illusioni tendenti a minare l'efficienza militare. Fino a quando la sconfitta implicava la perdita dell'indipendenza o conseguenze generalmente ritenute indesiderabili, era necessario intraprendere misure forti per evitarla. I fatti concreti non potevano essere ignorati. In filosofia, nella religione, nell'etica o nella politica, poteva anche accadere che due più due facesse cinque, ma quando si trattava di progettare un fucile o un aeroplano, due più due doveva fare quattro. Le nazioni meno forti finivano sempre per essere conquistate, prima o poi, e la lotta per l'efficienza non lasciava spazio alle illusioni. Il possesso di una simile dote, inoltre, consentiva di trarre lezione dal passato, il che implicava a sua volta la necessità di avere una nozione abbastanza accurata di quanto era accaduto. Ovviamente i giornali e i libri di storia avevano ognuno un proprio orientamento politico ed esibivano tutta una serie di pregiudizi, ma la falsificazione delle cose come si pratica oggi sarebbe stata impossibile. La guerra faceva da garante dell'integrità mentale. Anzi, se si prendono in considerazione le classi dirigenti, costituiva la forma di garanzia più solida. Fino a quando le guerre potevano essere vinte o perdute, nessuna classe dirigente poteva ritenersi totalmente irresponsabile degli avvenimenti.
Quando, però, diventa letteralmente continua, la guerra cessa anche di essere pericolosa. Quella che si chiama necessità militare viene a mancare. Il progresso tecnologico può anche arrestarsi, mentre i fatti più concreti possono essere negati o trascurati. Abbiamo visto che per fini bellici si fanno ancora ricerche che si potrebbero definire scientifiche, ma si tratta di fantasticherie o poco più, né ha importanza alcuna che non sortiscano effetti pratici. Dell'efficienza non si ha più bisogno, nemmeno di quella militare. In Oceania nulla funziona, tranne la Psicopolizia. Dal momento che nessuno dei tre superstati può essere conquistato, ognuno di loro costituisce un autentico mondo a parte, all'interno del quale è possibile praticare in tutta sicurezza qualsiasi forma di perversione del pensiero. La realtà esercita il suo peso solo sui bisogni della vita quotidiana: la necessità di mangiare e bere, di avere un tetto, di coprirsi, di non ingoiare veleno, di non cadere da una finestra dei piani alti eccetera.
Vi è ancora differenza fra la vita e la morte, fra il piacere fisico e il dolore fisico, ma questo è tutto. Tagliato fuori da ogni contatto con il mondo esterno e con il passato, il cittadino dell'Oceania è simile a un uomo che si trovi nello spazio interstellare e che non ha la possibilità di sapere dov'è l'alto e dov'è il basso. I governanti di uno stato del genere esercitano un potere assoluto, che non vantavano nemmeno i faraoni e gli imperatori romani. Sono obbligati a fare in modo che i loro seguaci non muoiano di fame in numero tale da costituire un serio problema; per quanto riguarda la tecnica militare, sono tenuti a mantenersi sullo stesso, basso livello dei rivali, ma una volta raggiunto questo minimo, possono riplasmare la realtà a loro piacimento.
Pertanto la guerra, se la si giudica coi criteri dei conflitti passati, è un'autentica impostura. Somiglia a quelle battaglie fra certi ruminanti le cui corna hanno un'angolatura tale che impedisce loro di ferirsi. Pur essendo fasulla, però, la guerra non è priva di significato. Essa divora tutti i beni di consumo in eccedenza e contribuisce a conservare quella speciale disposizione mentale di cui ha bisogno una società organizzata gerarchicamente. Come vedremo, la guerra è oggi un affare puramente interno. In passato i gruppi dirigenti di ogni paese potevano anche riconoscere gli interessi comuni e quindi limitare gli effetti devastanti della guerra, ma si combattevano sul serio: il vincitore saccheggiava sempre il vinto. Al giorno d'oggi nessuno combatte veramente contro un altro.
Oggi i gruppi dirigenti fanno innanzitutto guerra ai propri sottoposti, e il fine della guerra non è quello di conseguire o impedire conquiste territoriali, ma di mantenere intatta la struttura della società. La stessa parola  "guerra" è pertanto divenuta fuorviante. Non si sarebbe probabilmentelontani dal vero se si affermasse che, diventando perenne, la guerra ha cessato di esistere. Quelle particolari forme di pressione subite dagli esseri umani dal neolitico al XX secolo sono scomparse, sostituite da qualcosa di totalmente diverso. Se i tre superstati, invece di combattersi vicendevolmente, stabilissero di vivere in sempiterna pace, ognuno inviolato entro i propri confini, l'effetto sarebbe identico. In tal caso, infatti, ognuno di loro costituirebbe un universo in sé conchiuso, per sempre libero da influssi esterni che potrebbero infiacchirne la fibra. Una pace davvero permanente sarebbe la stessa cosa di una guerra permanente.
Anche se la maggior parte dei membri del Partito l'intendono in modo più superficiale, è questo il vero significato dello slogan "La guerra è pace".»

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