BLACKWATER
Gordon Poole tratto da “ La Voce delle Voci”, nr.2 febbraio 2010
Negli Stati Uniti di Obama va avanti l’azione, fuori di ogni legge e controllo, della Blackwater; la compagnia che fornisce all’amministrazione eserciti privati per le missioni sporche, dall’Afghanistan all’Iraq. Ecco in esclusiva la vera storia.
Quando ci si riferisce agli operatori di Blackwater e di altre compagnie private simili, vengono identificati eufemisticamente come "civilian contractors".
In un recente programma radiofonico della National Public Radio si è denunciato il fatto che quando sono feriti, mutilati o uccisi in zone di combattimento come l'Iraq o l'Afghanistan, non ricevono se non un'iniziale e sommaria assistenza dalle strutture ospedalieri militari Usa e trovano difficoltà a farsi compensare tramite le proprie polizze assicurative. Durante il programma non si è parlato di cosa facevano in Iraq e Afghanistan questi sfortunati o i loro più fortunati colleghi di lavoro.
L’eufemismo del termine "civilian contractors" sta nel fatto che una parte significativa degli operatori alle dipendenze di Blackwater, come delle altre società simili, sono mercenari, costituiti in una "compagnia di ventura", un vero e proprio esercito, parallelo alle forze armate regolari nazionali. La base Blackwater nello stato del North Carolina s'estende su circa tremila ettari, possiede una propria aviazione di 76 aerei (che affitta alle forze armate regolari statunitensi per operazioni "delicate"), un proprio settore marittimo (con esercitazioni su un lago artificiale appositamente costruito). E come qualsiasi esercito che si rispetta ha il proprio corpo di intelligence, e le proprie forze speciali. Queste ultime in Pakistan sono incaricate tra l'altro di commettere assassini e sequestri di persone sospettate di appartenere ai Talebani o ad Al-Qaeda. Inoltre gestiscono la campagna segreta statunitense di bombardamenti con aerei invisibili, i cosiddetti drone.
Mentre i soldati dell'esercito regolare Usa sono per lo più giovani e per circa due terzi membri delle minoranze etniche (con qualche straniero con aspirazione alla cittadinanza), gli eserciti privati sono composti soprattutto da bianchi maturi, con una lunga esperienza militare acquisita in varie branche delle forze armate. La differenza maggiore l'esercito regolare e la Blackwater é che quest'ultima dipende, nella prassi, direttamente dall'esecutivo, non risponde al Congresso. I suoi agenti entrano ed escono dalle stanze più segrete delle strutture di sicurezza nazionale, dove neanche i parlamentari possono accedere se non dietro autorizzazione specifica e motivata. Possono condurre operazioni in patria e soprattutto all'estero che non sarebbero consentite a militari regolari, molte delle quali proibite da accordi internazionali, come la Convenzione di Ginevra. Quindi Blackwater, che è la maggiore fra le compagnie di questo genere, è un esercito che agisce nell'ombra, le cui operazioni sono coperte da una fitta nebbia di segretezza.
La Cia è particolarmente irritata perché questa compagnia ha assunto un ruolo sempre maggiore nel compimento di operazioni clandestine che erano in passato sua prerogativa. La disinvoltura con la quale si muove la Blackwater fa sì che passi indenne attraverso controversie e processi per atti che, se fossero stati commessi da operatori della Cia, sarebbero probabilmente stati condannati.
Secondo Jeremy Scahill, autore di “Blackwater. The Rise of the World's Most Powerful Mercenary Army”, giornalista di "The Nation", accanto ai circa 250.000 militari regolari dislocati fra Iraq e Afghanistan c'è un ugual numero di contractor. In Afghanistan, in particolare, si verifica un'anomalia: oltre ai circa 68.000 arruolati nelle truppe regolari operano circa 104.000 contractor. Con l'aumento del numero di regolari voluto dal governo di Obama si calcola che si avrà un congruo aumento anche delle forze irregolari: oltre a Blackwater, compagnie come il K.B.R. (specializzata in logistica), DynCorp e Tripple Canopy, che sono forze paramilitari a contratto col Dipartimento della Difesa, il Dipartimento di Stato o la Cia. L'esercito Usa è soltanto la seconda forza in campo. E la presenza di truppe mercenarie permette agli Stati Uniti, se necessario, di fare a meno della politica di alleanze con altre nazioni: basta affittare un esercito e farselo pagare dai contribuenti. Inoltre, i morti e feriti dei contractor non contano, nel senso che non entrano nei tabulati.
Hillary Clinton, quando era candidata alla presidenza, promise che avrebbe messo Blackwater al bando e propose leggi in questo senso; ora, quando si reca in Afghanistan, le sue guardie del corpo sono agenti Blackwater. Anche Barack Obama, quando era senatore, cercò di regolarizzare la posizione dei contractor, per metterli sotto il controllo di un qualche sistema di leggi. Non solo non vi riuscì, ma sotto la sua presidenza se ne fa un uso molto maggiore di quanto non abbia fatto l'amministrazione Bush.
In effetti, Obama è costretto a servirsi delle compagnie di contractor per compensare il fatto che le forze militari ufficiali sono troppo estese sia in Iraq che in Afghanistan e inoltre sono inadatte alla conduzione del genere di operazioni clandestine, spesso sporche, che le forze speciali mercenarie invece compiono con impunità. Un esempio di grande attualità è il programma, segreto naturalmente, del J.S.O.C. (Joint Special Operations Command) a Karachi: una forza specialissima composta di esperti militari in pensione dai Navy Seals, Delta Force, Army Rangers, ecc. Sono operativi in Afghanistan e, dal 2006, anche in Pakistan. Il JSOC, che dipende dalla Blackwater, è particolarmente specializzato nel sequestrare persone identificate come nemici perché siano sottoposte rendition e "interrogate". Inoltre collabora alla campagna di bombardamenti aerei dei drone della Cia. Tutto questo, sebbene ormai conosciuto grazie a indiscrezioni e soffiate, viene sistematicamente negato dal Pentagono e dalla Casa Bianca.
Il capo del J.S.O.C. dal 2003 al 2008 è stato il generale Stanley McChrystal che, durante l'amministrazione Bush, prendeva ordini direttamente dal vicepresidente Richard Cheney e dal segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld, senza passare per il Congresso. Proprio McChrystal è stato nominato da Obama capo delle forze militari in Afghanistan. Per garantire una maggiore collaborazione con le forze regolari, l'attuale capo del J.S.C.C. e successore di McChrystal è il suo ex-vice nel J.S.O.C., l'ammiraglio William McRaven.
I crociati della morte
La compagnia Blackwater ha una sua ideologia politica, che non collima perfettamente con quella professata dal governo statunitense, in particolare dall'attuale amministrazione Obama. Il capo e fondatore della compagnia è un uomo dell'estrema destra, Erik Prince, un "Christian crusader" (crociato di Cristo: la definizione è sua) che si crede investito dalla sacra missione di muovere guerra all'Islam. Gli operatori di Blackwater venivano incoraggiati a fare cacce notturne in elicottero per abbattere iracheni in giro per le strade o le campagne, una specie di sport. Fra l'altro, Erik Prince è stato accusato ufficialmente da due ex-dipendenti (pentiti) di aver fatto uccidere individui creduti informatori delle autorità federali nel corso di un'investigazione subita dalla Blackwater per attività criminali. Questo capo del più grande esercito privato degli Stati Uniti, che si considera un patriota, ha accesso a informazioni super-segrete ritenute così importanti da non essere comunicate neanche ai membri del Congresso.
Quello che si sa della Blackwater proviene soprattutto da ex-arruolati che hanno lavorato per anni per la compagnia e che per varie ragioni sono rimasti delusi, e dal giornalismo investigativo di persone come Jeremy Scahill. Spesso si tratta di persone che avevano una specie di venerazione per Erik Prince, finché cominciarono a rendersi conto degli scopi "messianici" che costituiscono il cuore della sua politica. Altri furono sconcertati dall'illegalità che caratterizzava molte operazioni. La maggior parte sono ex-operatori che sentono il dovere di informare il pubblico della realtà di un'organizzazione della quale si pentono di aver fatto parte.
www.disinformazione.it
martedì, marzo 30, 2010
Domande e risposte tra il governatore Formigoni ed una cittadina bresciana
Le 3 domande poste il 19/3/2010 a Formigoni
L'art. 33 della Costituzione recita: "Enti e privati hanno il diritto a istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo stato", è giusto che la Regione Lombardia abbia girato alla scuola privata lombarda ben 45 milioni di € nell'a.a. 2008/09?
2) E' giusto che la Regione Lombardia destini l'80% dei fondi per il diritto allo studio ai soli studenti della scuola privata che sono solo il 9% della popolazione scolastica??
3) E' giusto che i Dirigenti Scolastici siano costretti a tassare le famiglie per continuare a sopravvivere e non chiudere i "portoni" per collasso. Il contributo volontario ai genitori viene chiesto per tutto: per pagare le supplenze ma anche per non lasciare le aule e i ragazzi privi di gessetti, carta igenica, detersivi e fotocopie. E'questa l'unica entrata certa su cui le scuole possono contare per il futuro. L'anno prossimo mia figlia si iscriverà alla classe 2^ del Liceo Statale dovrò versare un "contributo di laboratorio" pari a € 150, ma la scuola pubblica non dovrebbe essere gratuita?
La risposta di Formigoni in data 25/3/2010
Gentile signora XXXXXX,
la sua mail appare una fotocopia di altre. Mi auguro comunque che sia l'occasione per una riflessione seria perciò vorrei risponderle con un ragionamento e anche qualche dato.
In Italia sembra impossibile a volte ragionare in modo non ideologico: la scuola viene considerata pubblica solo se è statale e si perpetua un'impostazione centralistica e dirigistica di istruzione e organizzazione scolastica, salvo poi lamentarsi che lo Stato non fa abbastanza. In altri Paesi europei, dei più diversi orientamenti culturali e politici, dalla Francia all'Inghilterra, alla Finlandia all'Olanda non è così. E credo che non sia un caso se i sistemi scolastici in cui c’è ibertà di scelta e autonomia scolastica con la definizione di standard nazionali di qualità e di valutazione sono quelli in cui si ottengono i risultati migliori in termini di apprendimento, di crescita e di vantaggio competitivo per gli studenti. Basta leggere i rapporti dell'OCSE per rendersene conto.
Mentre noi siamo ancora qui a disquisire su come interpretare l'art. 33 della Costituzione, i nostri ragazzi e giovani, specie se non sono di famiglia abbiente, non possono usufruire di tutte le opportunità che un sistema libero e paritario di istruzione potrebbe offrire loro. E intanto il nostro ascensore sociale è fermo.
Desidero ricordare anche la sentenza della Corte Costituzionale n° 454 del 1994, nella quale è stato ribadito che l'obbligo scolastico può essere adempiuto in modi diversi dalla frequenza delle scuole pubbliche statali, e che sarebbe ingiustificatamente discriminatoria l’esclusione, di chi assolva in uno dei modi diversi da tale tipo di frequenza, da provvidenze destinate non alle scuole bensì agli alunni.
Oggi la scuola pubblica, in Italia, comprende sia la scuola statale sia la scuola paritaria; infatti, la legge nazionale 62 del 2000, approvata durante il Governo D'Alema, afferma che la scuola è pubblica in base al servizio che rende alla società, indipendentemente dalla figura giuridica del gestore. La scuola, sia statale sia paritaria, è scuola di tutti e per tutti perché è scuola della società e della nazione.
A fronte di una parità giuridica manca ancora però una parità economica: lei non sa che la scuola statale costa alla collettività oltre 7.300 euro l'anno per studente, di cui 5.700 euro in capo allo Stato e il restante a carico delle Regione e degli enti locali.
Per le scuole paritarie, che offrono un servizio pubblico, lo Stato paga un contributo medio di 511 euro per studente. Quindi ogni studente iscritto alle scuole non statali genera paradossalmente un risparmio per lo Stato di 5.200 euro.
Forse non sa che le scuole paritarie svolgono un servizio indispensabile per la collettività: le scuole dell'infanzia non statali in Lombardia sono 1.491 e danno un servizio a oltre 157 mila bambini, il 59% del totale. Cosa succederebbe se si chiudessero tutte? Le scuole statali non sarebbero certo in grado di accogliere tutti
questi bambini.
Ora alcuni dati sulla Dote scuola di regione Lombardia, per non fare confusione.
I beneficiari della dote scuola per l’anno scolastico 2009/10 sono stati 257.848, di cui 67.206 iscritti ad una scuola paritaria e 190.642 iscritti a scuole statali.
In Lombardia gli studenti iscritti alle paritarie sono il 19% del totale, ben sopra la media nazionale del 12%.
Tra coloro che richiedono la componente Buono Scuola il 34% ha un reddito inferiore ai 15.458 Euro e oltre il 10% chiede anche il sostegno al reddito poiché ha un ISEE inferiore o uguale a 15.458 Euro. Con la Dote Scuola Regione Lombardia compie un atto di equità sostenendo sempre le persone e non le scuole, perché non sia
svantaggiato chi sceglie una scuola non statale avendo già pagato le tasse.
Per parte mia come Presidente di Regione Lombardia mi impegnerò perché a tutti i cittadini sia offerta la possibilità di godere di un sistema di istruzione in cui possano esercitare la libertà di scelta e trovare la massima qualità ed equità, con una particolare attenzione a chi ha maggior merito e a chi ha maggior bisogno di mezzi e di sostegno.
Con viva cordialità.
Roberto Formigoni
La mia risposta del 26/3/2010
Gent.le signor Formigoni,
in una cosa le devo dare ragione, stiamo discutendo di un articolo della
Costituzione, "L'art. 33 "Enti e privati hanno il diritto a istituire scuole
e istituti di educazione senza oneri per lo stato" .
Tale articolo è di una chiarezza lapalissiana e quindi non dovrebbe aver bisogno di nessuna interpretazioni, salvo le distorsioni interpretative di una certa politica. sinistra compresa, che volendo servire Dio e Mammone, ha piegato la norma a suo uso e consumo. E ogni commento a ciò mi sembra perfettamente inutile.
E a proposito di parità, gli stipendi dei 22.000 insegnanti di religione cattolica - assunti nella scuola pubblica solamente con il placet delle curie (alla faccia dei pubblici concorsi!) – costano allo Stato ogni anno circa 950 milioni di euro. Non si capisce perché questo relitto del Concordato del ’29 tra fascismo e Vaticano, riconfermato nell’84 da Craxi-Casaroli, non venga abolito, o almeno perché non sia il Vaticano a pagare direttamente chi fa catechismo nelle scuole pubbliche. Vengono inoltre erogati ogni anno alle strutture cattoliche 700 milioni di euro per convenzioni tra Stato ed Enti Locali su sanità e scuola. A questo proposito si comprende meglio perché, come da anni cercano di affermare anche i Cobas della scuola, gli asili e le scuole materne non siano appannaggio diretto di Stato e Comuni, in quanto la fetta da distribuire alle curie è ben ricca e consistente. Questi ultimi dati sono certamente per difetto anche perché sappiamo che l’unica voce della scuola che da anni continua ad aumentare, sia durante i governi di centrodestra che in quelli di centrosinistra, è il finanziamento delle scuole private, alla faccia dell’articolo 33 della Costituzione che afferma che esse devono essere “senza oneri per lo stato”. Per esempio il decreto interministeriale 28/05/09 fissa la quota dei contributi statali a 120.000.000 di euro per tutte le scuole “paritarie” cioè le private -confessionali, confindustriali o semplici esamifici – nonostante i pesanti tagli alla scuola pubblica. Nel 2004 lo stato aveva elargito 258 milioni di finanziamento alle scuole cattoliche, 44 milioni alle 5 università cattoliche, più 20 milioni per il campus biomedico dell’Opus Dei (diventati 30 nel 2005). Nel 2005 l’ammontare dei contributi è stato di 527 milioni. Nel 2006 – anno di ulteriori pesanti tagli alla scuola pubblica – 532,3 milioni di Euro.
Perchè in un ottica di risparmio non accollare al Clero lo stipendio di questi insegnanti, vede che bel risparmio per lo Stato e di conseguenza per la Regione. Ma avete mai analizzato seriamente cosa fanno gli studenti durante l'ora di religione ?
Cordiali saluti
xxxxxxxx
L'art. 33 della Costituzione recita: "Enti e privati hanno il diritto a istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo stato", è giusto che la Regione Lombardia abbia girato alla scuola privata lombarda ben 45 milioni di € nell'a.a. 2008/09?
2) E' giusto che la Regione Lombardia destini l'80% dei fondi per il diritto allo studio ai soli studenti della scuola privata che sono solo il 9% della popolazione scolastica??
3) E' giusto che i Dirigenti Scolastici siano costretti a tassare le famiglie per continuare a sopravvivere e non chiudere i "portoni" per collasso. Il contributo volontario ai genitori viene chiesto per tutto: per pagare le supplenze ma anche per non lasciare le aule e i ragazzi privi di gessetti, carta igenica, detersivi e fotocopie. E'questa l'unica entrata certa su cui le scuole possono contare per il futuro. L'anno prossimo mia figlia si iscriverà alla classe 2^ del Liceo Statale dovrò versare un "contributo di laboratorio" pari a € 150, ma la scuola pubblica non dovrebbe essere gratuita?
La risposta di Formigoni in data 25/3/2010
Gentile signora XXXXXX,
la sua mail appare una fotocopia di altre. Mi auguro comunque che sia l'occasione per una riflessione seria perciò vorrei risponderle con un ragionamento e anche qualche dato.
In Italia sembra impossibile a volte ragionare in modo non ideologico: la scuola viene considerata pubblica solo se è statale e si perpetua un'impostazione centralistica e dirigistica di istruzione e organizzazione scolastica, salvo poi lamentarsi che lo Stato non fa abbastanza. In altri Paesi europei, dei più diversi orientamenti culturali e politici, dalla Francia all'Inghilterra, alla Finlandia all'Olanda non è così. E credo che non sia un caso se i sistemi scolastici in cui c’è ibertà di scelta e autonomia scolastica con la definizione di standard nazionali di qualità e di valutazione sono quelli in cui si ottengono i risultati migliori in termini di apprendimento, di crescita e di vantaggio competitivo per gli studenti. Basta leggere i rapporti dell'OCSE per rendersene conto.
Mentre noi siamo ancora qui a disquisire su come interpretare l'art. 33 della Costituzione, i nostri ragazzi e giovani, specie se non sono di famiglia abbiente, non possono usufruire di tutte le opportunità che un sistema libero e paritario di istruzione potrebbe offrire loro. E intanto il nostro ascensore sociale è fermo.
Desidero ricordare anche la sentenza della Corte Costituzionale n° 454 del 1994, nella quale è stato ribadito che l'obbligo scolastico può essere adempiuto in modi diversi dalla frequenza delle scuole pubbliche statali, e che sarebbe ingiustificatamente discriminatoria l’esclusione, di chi assolva in uno dei modi diversi da tale tipo di frequenza, da provvidenze destinate non alle scuole bensì agli alunni.
Oggi la scuola pubblica, in Italia, comprende sia la scuola statale sia la scuola paritaria; infatti, la legge nazionale 62 del 2000, approvata durante il Governo D'Alema, afferma che la scuola è pubblica in base al servizio che rende alla società, indipendentemente dalla figura giuridica del gestore. La scuola, sia statale sia paritaria, è scuola di tutti e per tutti perché è scuola della società e della nazione.
A fronte di una parità giuridica manca ancora però una parità economica: lei non sa che la scuola statale costa alla collettività oltre 7.300 euro l'anno per studente, di cui 5.700 euro in capo allo Stato e il restante a carico delle Regione e degli enti locali.
Per le scuole paritarie, che offrono un servizio pubblico, lo Stato paga un contributo medio di 511 euro per studente. Quindi ogni studente iscritto alle scuole non statali genera paradossalmente un risparmio per lo Stato di 5.200 euro.
Forse non sa che le scuole paritarie svolgono un servizio indispensabile per la collettività: le scuole dell'infanzia non statali in Lombardia sono 1.491 e danno un servizio a oltre 157 mila bambini, il 59% del totale. Cosa succederebbe se si chiudessero tutte? Le scuole statali non sarebbero certo in grado di accogliere tutti
questi bambini.
Ora alcuni dati sulla Dote scuola di regione Lombardia, per non fare confusione.
I beneficiari della dote scuola per l’anno scolastico 2009/10 sono stati 257.848, di cui 67.206 iscritti ad una scuola paritaria e 190.642 iscritti a scuole statali.
In Lombardia gli studenti iscritti alle paritarie sono il 19% del totale, ben sopra la media nazionale del 12%.
Tra coloro che richiedono la componente Buono Scuola il 34% ha un reddito inferiore ai 15.458 Euro e oltre il 10% chiede anche il sostegno al reddito poiché ha un ISEE inferiore o uguale a 15.458 Euro. Con la Dote Scuola Regione Lombardia compie un atto di equità sostenendo sempre le persone e non le scuole, perché non sia
svantaggiato chi sceglie una scuola non statale avendo già pagato le tasse.
Per parte mia come Presidente di Regione Lombardia mi impegnerò perché a tutti i cittadini sia offerta la possibilità di godere di un sistema di istruzione in cui possano esercitare la libertà di scelta e trovare la massima qualità ed equità, con una particolare attenzione a chi ha maggior merito e a chi ha maggior bisogno di mezzi e di sostegno.
Con viva cordialità.
Roberto Formigoni
La mia risposta del 26/3/2010
Gent.le signor Formigoni,
in una cosa le devo dare ragione, stiamo discutendo di un articolo della
Costituzione, "L'art. 33 "Enti e privati hanno il diritto a istituire scuole
e istituti di educazione senza oneri per lo stato" .
Tale articolo è di una chiarezza lapalissiana e quindi non dovrebbe aver bisogno di nessuna interpretazioni, salvo le distorsioni interpretative di una certa politica. sinistra compresa, che volendo servire Dio e Mammone, ha piegato la norma a suo uso e consumo. E ogni commento a ciò mi sembra perfettamente inutile.
E a proposito di parità, gli stipendi dei 22.000 insegnanti di religione cattolica - assunti nella scuola pubblica solamente con il placet delle curie (alla faccia dei pubblici concorsi!) – costano allo Stato ogni anno circa 950 milioni di euro. Non si capisce perché questo relitto del Concordato del ’29 tra fascismo e Vaticano, riconfermato nell’84 da Craxi-Casaroli, non venga abolito, o almeno perché non sia il Vaticano a pagare direttamente chi fa catechismo nelle scuole pubbliche. Vengono inoltre erogati ogni anno alle strutture cattoliche 700 milioni di euro per convenzioni tra Stato ed Enti Locali su sanità e scuola. A questo proposito si comprende meglio perché, come da anni cercano di affermare anche i Cobas della scuola, gli asili e le scuole materne non siano appannaggio diretto di Stato e Comuni, in quanto la fetta da distribuire alle curie è ben ricca e consistente. Questi ultimi dati sono certamente per difetto anche perché sappiamo che l’unica voce della scuola che da anni continua ad aumentare, sia durante i governi di centrodestra che in quelli di centrosinistra, è il finanziamento delle scuole private, alla faccia dell’articolo 33 della Costituzione che afferma che esse devono essere “senza oneri per lo stato”. Per esempio il decreto interministeriale 28/05/09 fissa la quota dei contributi statali a 120.000.000 di euro per tutte le scuole “paritarie” cioè le private -confessionali, confindustriali o semplici esamifici – nonostante i pesanti tagli alla scuola pubblica. Nel 2004 lo stato aveva elargito 258 milioni di finanziamento alle scuole cattoliche, 44 milioni alle 5 università cattoliche, più 20 milioni per il campus biomedico dell’Opus Dei (diventati 30 nel 2005). Nel 2005 l’ammontare dei contributi è stato di 527 milioni. Nel 2006 – anno di ulteriori pesanti tagli alla scuola pubblica – 532,3 milioni di Euro.
Perchè in un ottica di risparmio non accollare al Clero lo stipendio di questi insegnanti, vede che bel risparmio per lo Stato e di conseguenza per la Regione. Ma avete mai analizzato seriamente cosa fanno gli studenti durante l'ora di religione ?
Cordiali saluti
xxxxxxxx
domenica, marzo 21, 2010
Lombardia, regole più rigide per chi non si avvale dell’ora di religione
di Cecilia M. Calamani [17 mar 2010]
Formalmente è un’ora facoltativa, della quale gli studenti possono o meno avvalersi. Nella pratica, invece, una scelta diversa dall’ora di ora di religione cattolica viene sempre più osteggiata.
L’ultima trovata della Regione Lombardia sul tema è un vero giro di vite per arginare le fughe dal "catechismo di Stato": la scelta va fatta solo al momento dell’iscrizione nella prima classe. Non verrà quindi più proposta, al contrario di ciò che è sempre stato fatto, negli anni successivi. I genitori dei ragazzi che dovessero cambiare idea nel corso degli studi dovranno presentare esplicita richiesta in segreteria, ma la variazione avrà effetto solo dall’anno scolastico seguente.
«Chiedere ogni anno ai ragazzi se desiderano seguire religione, come succede in molte scuole, rischia di essere un invito a non farlo. Sarebbe come domandare loro se vogliono essere in classe per il corso di matematica: la tentazione di disertare è forte», commenta Marco Moschetti, insegnante di religione e membro del direttivo dell’ Associazione nazionale insegnanti di religione. Ecco qui spiegata la direttiva lombarda. Per evitare che i ragazzi disertino l’ora di religione, è meglio non ricordare loro che hanno la possibilità di non frequentarla.
Questo metodo, che sottende una certa tendenza coercitiva, non fa altro che perseguire la linea governativa in sostegno della Cei, la quale trae dall’ora di religione nelle scuole degli enormi ritorni in termini evangelici ed economici. I ministri dell’Istruzione dei governi Berlusconi, Letizia Moratti e Mariastella Gemini, hanno sempre più consolidato l’ora religione a scapito delle altre discipline (alle quali si continuano a tagliare ore di didattica) e del diritto degli studenti non cattolici. L’una e l’altra hanno fatto l’impossibile per stracciare quella pallida idea di equità che anche una disciplina facoltativa – e anticostituzionale – come la religione cattolica potrebbe comprendere.
Il vero colpo di mano è stato portato a segno da Letizia Moratti nel 2004 quando, con un concorso ad hoc (leggasi sanatoria), la maggioranza di loro – circa il 70% – è entrata a pieno titolo in ruolo nello Stato, sebbene la Curia di competenza mantenga il diritto di revoca dell’incarico in ogni momento. Il che significa, se ciò si verificasse, che i docenti di religione andrebbero a coprire altro ruolo nella scuola pubblica. Basta solo che possiedano idoneo titolo di studio, il concorso è condonato.
Ci si aspetterebbe, come minimo, che anche l’ora di didattica alternativa a quella di religione cattolica, prevista dall’ultimo riferimento normativo in materia, fosse a carico dello Stato. E invece no. Sono i singoli istituti, sempre più strozzati dai ripetuti tagli che si abbattono sulla scuola pubblica come una mannaia, a dover far fronte alle eventuali spese con i propri fondi. Il risultato lo potrebbe immaginare anche un bambino: la maggioranza degli istituti italiani, di ogni ordine e grado, non prevede attività didattiche alternative.
Diretta conseguenza di ciò è che molte famiglie di non o diversamente credenti, per evitare che i propri figli siano esiliati in altre classi durante l’ora di religione come sovente succede nelle scuole materne ed elementari, rinunciano al diritto di non avvalersene.
Per i più grandi, invece, si profila come alternativa il corridoio o l’uscita anticipata. Ma ecco intervenire un altro piccolo ricatto: a partire dal terzo anno di superiori, l’ora di religione concorre a maturare credito scolastico in vista dell’esame di Stato. E chi non la frequenta si trova, dunque, nell’impossibilità di maturare analogo vantaggio. Il meccanismo attira i ragazzi, a prescindere da cosa - e se – credano. Se la religione cattolica dà credito supplementare, perché non frequentarla?
Ecco quindi spiegate le cifre della Cei sulla frequenza all’ora di religione, che complessivamente vanta, nell’anno scolastico 2008-2009, l’adesione del 91% degli studenti delle scuole pubbliche.
Ciliegina sulla ricca torta ecclesiale, i moduli diramati dal ministero Gelmini per l’iscrizione al prossimo anno scolastico non prevedono la scelta di attività didattiche e formative per chi non si avvale della religione cattolica. Le possibilità, infatti, sono solo due: attività individuali o di gruppo con assistenza di personale docente e uscita dalla scuola. E’ prevista, ha precisato la ministra Gelmini tra i denti, l’eventualità che la scuola li personalizzi aggiungendo attività formative, ma alla fine questa ‘dimenticanza’ fa solo tirare un sospiro di sollievo agli istituti, che possono evitare di porsi il problema di fornire un’alternativa didattica. Non è contemplata neanche nei moduli ministeriali!
In questo clima, l’iniziativa della Regione Lombardia è ancora più chiara. Mira a scoraggiare ulteriormente eventuali rinunce in corso d’opera soprattutto alle superiori. Già nella sola Milano, il 30% degli iscritti al primo anno sceglie di non avvalersi della religione cattolica, e la percentuale sfiora il 50% nelle ultime classi.
Ricapitolando, non si forniscono alternative didattiche, si danno crediti scolastici (solo) ai ragazzi cattolici e ora non si informano neanche più studenti e genitori dei loro diritti. Fare una scelta diversa da quella caldeggiata dalla Cei e supinamente recepita dai ministri della nostra Repubblica diventa sempre più complicato e, soprattutto, meno conveniente per tutti. Passo dopo passo, si sta spianando il terreno per trasformare l’ora di religione in materia curriculare, come la Gelmini ha auspicato in più occasioni. E quando succederà, probabilmente gli italiani neanche se ne accorgeranno.
Formalmente è un’ora facoltativa, della quale gli studenti possono o meno avvalersi. Nella pratica, invece, una scelta diversa dall’ora di ora di religione cattolica viene sempre più osteggiata.
L’ultima trovata della Regione Lombardia sul tema è un vero giro di vite per arginare le fughe dal "catechismo di Stato": la scelta va fatta solo al momento dell’iscrizione nella prima classe. Non verrà quindi più proposta, al contrario di ciò che è sempre stato fatto, negli anni successivi. I genitori dei ragazzi che dovessero cambiare idea nel corso degli studi dovranno presentare esplicita richiesta in segreteria, ma la variazione avrà effetto solo dall’anno scolastico seguente.
«Chiedere ogni anno ai ragazzi se desiderano seguire religione, come succede in molte scuole, rischia di essere un invito a non farlo. Sarebbe come domandare loro se vogliono essere in classe per il corso di matematica: la tentazione di disertare è forte», commenta Marco Moschetti, insegnante di religione e membro del direttivo dell’ Associazione nazionale insegnanti di religione. Ecco qui spiegata la direttiva lombarda. Per evitare che i ragazzi disertino l’ora di religione, è meglio non ricordare loro che hanno la possibilità di non frequentarla.
Questo metodo, che sottende una certa tendenza coercitiva, non fa altro che perseguire la linea governativa in sostegno della Cei, la quale trae dall’ora di religione nelle scuole degli enormi ritorni in termini evangelici ed economici. I ministri dell’Istruzione dei governi Berlusconi, Letizia Moratti e Mariastella Gemini, hanno sempre più consolidato l’ora religione a scapito delle altre discipline (alle quali si continuano a tagliare ore di didattica) e del diritto degli studenti non cattolici. L’una e l’altra hanno fatto l’impossibile per stracciare quella pallida idea di equità che anche una disciplina facoltativa – e anticostituzionale – come la religione cattolica potrebbe comprendere.
Il vero colpo di mano è stato portato a segno da Letizia Moratti nel 2004 quando, con un concorso ad hoc (leggasi sanatoria), la maggioranza di loro – circa il 70% – è entrata a pieno titolo in ruolo nello Stato, sebbene la Curia di competenza mantenga il diritto di revoca dell’incarico in ogni momento. Il che significa, se ciò si verificasse, che i docenti di religione andrebbero a coprire altro ruolo nella scuola pubblica. Basta solo che possiedano idoneo titolo di studio, il concorso è condonato.
Ci si aspetterebbe, come minimo, che anche l’ora di didattica alternativa a quella di religione cattolica, prevista dall’ultimo riferimento normativo in materia, fosse a carico dello Stato. E invece no. Sono i singoli istituti, sempre più strozzati dai ripetuti tagli che si abbattono sulla scuola pubblica come una mannaia, a dover far fronte alle eventuali spese con i propri fondi. Il risultato lo potrebbe immaginare anche un bambino: la maggioranza degli istituti italiani, di ogni ordine e grado, non prevede attività didattiche alternative.
Diretta conseguenza di ciò è che molte famiglie di non o diversamente credenti, per evitare che i propri figli siano esiliati in altre classi durante l’ora di religione come sovente succede nelle scuole materne ed elementari, rinunciano al diritto di non avvalersene.
Per i più grandi, invece, si profila come alternativa il corridoio o l’uscita anticipata. Ma ecco intervenire un altro piccolo ricatto: a partire dal terzo anno di superiori, l’ora di religione concorre a maturare credito scolastico in vista dell’esame di Stato. E chi non la frequenta si trova, dunque, nell’impossibilità di maturare analogo vantaggio. Il meccanismo attira i ragazzi, a prescindere da cosa - e se – credano. Se la religione cattolica dà credito supplementare, perché non frequentarla?
Ecco quindi spiegate le cifre della Cei sulla frequenza all’ora di religione, che complessivamente vanta, nell’anno scolastico 2008-2009, l’adesione del 91% degli studenti delle scuole pubbliche.
Ciliegina sulla ricca torta ecclesiale, i moduli diramati dal ministero Gelmini per l’iscrizione al prossimo anno scolastico non prevedono la scelta di attività didattiche e formative per chi non si avvale della religione cattolica. Le possibilità, infatti, sono solo due: attività individuali o di gruppo con assistenza di personale docente e uscita dalla scuola. E’ prevista, ha precisato la ministra Gelmini tra i denti, l’eventualità che la scuola li personalizzi aggiungendo attività formative, ma alla fine questa ‘dimenticanza’ fa solo tirare un sospiro di sollievo agli istituti, che possono evitare di porsi il problema di fornire un’alternativa didattica. Non è contemplata neanche nei moduli ministeriali!
In questo clima, l’iniziativa della Regione Lombardia è ancora più chiara. Mira a scoraggiare ulteriormente eventuali rinunce in corso d’opera soprattutto alle superiori. Già nella sola Milano, il 30% degli iscritti al primo anno sceglie di non avvalersi della religione cattolica, e la percentuale sfiora il 50% nelle ultime classi.
Ricapitolando, non si forniscono alternative didattiche, si danno crediti scolastici (solo) ai ragazzi cattolici e ora non si informano neanche più studenti e genitori dei loro diritti. Fare una scelta diversa da quella caldeggiata dalla Cei e supinamente recepita dai ministri della nostra Repubblica diventa sempre più complicato e, soprattutto, meno conveniente per tutti. Passo dopo passo, si sta spianando il terreno per trasformare l’ora di religione in materia curriculare, come la Gelmini ha auspicato in più occasioni. E quando succederà, probabilmente gli italiani neanche se ne accorgeranno.
domenica, ottobre 25, 2009
il Ritalin può far male, ma deve restare in commercio
Agenzia del Farmaco: il Ritalin può far male, ma deve restare in commercio
Tratto da www.giulemanidaibambini.org
L’Agenzia Europea del Farmaco (EMEA) termina la revisione sul Ritalin®: “aritmie, possibili arresti cardiaci, ischemie cerebrali, psicosi e forme maniacali, alterazioni del pensiero e paranoie, tossicità per la crescita”. (Poma, Giù le Mani dai Bambini®): “Dopo aver trovato conferma a tutti i rischi potenziali di questo psicofarmaco sui bimbi, l’EMEA conclude che comunque va mantenuto in commercio. L’Agenzia del Farmaco non dipende dalla Direzione Sanità dell’U.E., ma dalla Direzione Industria: questa report ne è una prova lampante, invece di difendere gli interessi dei bimbi difendono gli interessi dei produttori”
Il 22 giugno 2007 la Commissione Europea aveva chiesto l’avvio di una procedura di deferimento al CHMP (Comitato per i Medicinali ad uso Umano dell’EMEA) per tutti i medicinali contenenti metilfenidato, il principio attivo del Ritalin®, il contestato psicofarmaco a base di metanfetamina che anche in Italia viene somministrato a bimbi troppo agitati e distratti. La Commissione aveva ritenuto infatti che andassero valutati alcuni dubbi sulla sicurezza, comprendenti disordini cardiovascolari e cerebrovascolari, potenzialmente associati al trattamento con questi psicofarmaci. Nel suo report finale, l’EMEA ha presentato le sue conclusioni. In sintesi: “L’analisi dei dati (…) mostra effetti del metilfenidato (…) costituiti perlopiù da aritmie cardiache (compresa tachicardia), ipertensione, arresto cardiaco, ischemia, con qualche segnalazione di morte improvvisa (…) E’ parere del CHMP/EMEA che, dal riesame dei dati emergano prove sufficienti per sospettare l’esistenza di una relazione di causa-effetto tra uso di metilfenidato e tali reazioni, e sono emerse prove precliniche di un effetto diretto del metilfenidato sulla struttura dei tessuti cardiaci. Le revisioni condotte sulla letteratura scientifica pubblicata e sui dati epidemiologici sono pervenute alla stessa conclusione (…) ed è stato riconosciuto che esiste un rischio potenziale (…). E’ emerso che le segnalazioni di eventi cerebrovascolari riguardavano principalmente: accidente cerebrovascolare, ictus, infarto cerebrale e ischemia cerebrale (…), occlusione arteriosa cerebrale ed occlusione dell’emisfero cerebrale destro. I dati presentati suggerivano che gli eventi si fossero verificati entro le dosi raccomandate (normale dosaggio terapeutico, ndr). Gli eventi avversi a livello psichiatrico correlati al metilfenidato e segnalati negli studi clinici comprendevano aggressività, comportamento violento, psicosi, forme maniacali, irritabilità e suicidarietà, quelli emersi più frequentemente nelle segnalazioni spontanee erano comportamento anormale, alterazione del pensiero, rabbia, ostilità, aggressività, agitazione, tic, irritabilità, ansia, pianto, depressione, sonnolenza, ADHD aggravata, iperattività psicomotoria, disordine emotivo, nervosismo, disordine psicotico, variazioni dell’umore, pensieri morbosi, disturbo ossessivo-compulsivo, cambiamento/disturbo della personalità, irrequietezza, stato confusionale, allucinazioni, letargia, paranoia e suicidarietà. Il riesame dei dati pre-clinici indica che il metilfenidato causa mutazioni comportamentali (…) consistenti principalmente in iperattività e comportamento stereotipato. Negli studi pre-clinici sono emerse alcune prove di un effetto del metilfenidato su alcuni parametri della crescita, sulla maturazione sessuale e sugli ormoni collegati (…) nonché potenziale tossicità per lo sviluppo (…)”. Infine, conclude l’EMEA, in base ai dati presentati “sono stati individuati i rischi significativi derivanti da un uso off-label, da un uso improprio o dalla diversione del medicinale”. Pur considerando assieme tutti questi elementi, il CHMP/EMEA ha comunque concluso che “il rapporto rischi/benefici dei prodotti contenenti metilfenidato per il trattamento dei bambini dai 6 anni di età in su è favorevole”, ed ha raccomandato “il mantenimento dell’autorizzazione all’immissione in commercio, modificando però il riassunto delle caratteristiche del prodotto e del foglio illustrativo conformemente a quanto emerso dalla rivalutazione”. Commenta la notizia Luca Poma, giornalista e portavoce di “Giù le Mani dai Bambini®”, il più rappresentativo Comitato per la farmacovigilanza pediatrica nel nostro paese (www.giulemanidaibambini.org), che riunisce Università, ASL, Ordini dei medici ed associazioni di promozione sociale: “Delle due l’una: o l’EMEA non riconosceva i rischi del metilfenidato, o se li riconosceva – e li ha riconosciuti chiaramente – avrebbe dovuto bloccarne la commercializzazione o comunque assumere determinazioni ben più drastiche che non delle semplici modifiche al foglio illustrativo. Questa vicenda ci chiarisce una volta di più, se mai fosse necessario, chi mira a tutelare l’Agenzia Europea del Farmaco, che dipende stranamente dalla Direzione Industria e non dalla Direzione Sanità e che è continuamente bersaglio delle potenti lobby farmaceutiche: in questo caso tutela le aziende ed i loro interessi finanziari, non certamente i piccoli pazienti”. Il Ritalin®, prodotto dalla multinazionale Novartis® in questi anni è stato un vero e proprio “blockbuster”: un basso costo per confezione ha permesso la Sua diffusione massiccia nel mondo, con oltre 20 milioni di prescrizioni all’anno per sedare comportamenti “difficili” di bambini ed adolescenti e per migliorarne le performance scolastiche.
Tratto da www.giulemanidaibambini.org
L’Agenzia Europea del Farmaco (EMEA) termina la revisione sul Ritalin®: “aritmie, possibili arresti cardiaci, ischemie cerebrali, psicosi e forme maniacali, alterazioni del pensiero e paranoie, tossicità per la crescita”. (Poma, Giù le Mani dai Bambini®): “Dopo aver trovato conferma a tutti i rischi potenziali di questo psicofarmaco sui bimbi, l’EMEA conclude che comunque va mantenuto in commercio. L’Agenzia del Farmaco non dipende dalla Direzione Sanità dell’U.E., ma dalla Direzione Industria: questa report ne è una prova lampante, invece di difendere gli interessi dei bimbi difendono gli interessi dei produttori”
Il 22 giugno 2007 la Commissione Europea aveva chiesto l’avvio di una procedura di deferimento al CHMP (Comitato per i Medicinali ad uso Umano dell’EMEA) per tutti i medicinali contenenti metilfenidato, il principio attivo del Ritalin®, il contestato psicofarmaco a base di metanfetamina che anche in Italia viene somministrato a bimbi troppo agitati e distratti. La Commissione aveva ritenuto infatti che andassero valutati alcuni dubbi sulla sicurezza, comprendenti disordini cardiovascolari e cerebrovascolari, potenzialmente associati al trattamento con questi psicofarmaci. Nel suo report finale, l’EMEA ha presentato le sue conclusioni. In sintesi: “L’analisi dei dati (…) mostra effetti del metilfenidato (…) costituiti perlopiù da aritmie cardiache (compresa tachicardia), ipertensione, arresto cardiaco, ischemia, con qualche segnalazione di morte improvvisa (…) E’ parere del CHMP/EMEA che, dal riesame dei dati emergano prove sufficienti per sospettare l’esistenza di una relazione di causa-effetto tra uso di metilfenidato e tali reazioni, e sono emerse prove precliniche di un effetto diretto del metilfenidato sulla struttura dei tessuti cardiaci. Le revisioni condotte sulla letteratura scientifica pubblicata e sui dati epidemiologici sono pervenute alla stessa conclusione (…) ed è stato riconosciuto che esiste un rischio potenziale (…). E’ emerso che le segnalazioni di eventi cerebrovascolari riguardavano principalmente: accidente cerebrovascolare, ictus, infarto cerebrale e ischemia cerebrale (…), occlusione arteriosa cerebrale ed occlusione dell’emisfero cerebrale destro. I dati presentati suggerivano che gli eventi si fossero verificati entro le dosi raccomandate (normale dosaggio terapeutico, ndr). Gli eventi avversi a livello psichiatrico correlati al metilfenidato e segnalati negli studi clinici comprendevano aggressività, comportamento violento, psicosi, forme maniacali, irritabilità e suicidarietà, quelli emersi più frequentemente nelle segnalazioni spontanee erano comportamento anormale, alterazione del pensiero, rabbia, ostilità, aggressività, agitazione, tic, irritabilità, ansia, pianto, depressione, sonnolenza, ADHD aggravata, iperattività psicomotoria, disordine emotivo, nervosismo, disordine psicotico, variazioni dell’umore, pensieri morbosi, disturbo ossessivo-compulsivo, cambiamento/disturbo della personalità, irrequietezza, stato confusionale, allucinazioni, letargia, paranoia e suicidarietà. Il riesame dei dati pre-clinici indica che il metilfenidato causa mutazioni comportamentali (…) consistenti principalmente in iperattività e comportamento stereotipato. Negli studi pre-clinici sono emerse alcune prove di un effetto del metilfenidato su alcuni parametri della crescita, sulla maturazione sessuale e sugli ormoni collegati (…) nonché potenziale tossicità per lo sviluppo (…)”. Infine, conclude l’EMEA, in base ai dati presentati “sono stati individuati i rischi significativi derivanti da un uso off-label, da un uso improprio o dalla diversione del medicinale”. Pur considerando assieme tutti questi elementi, il CHMP/EMEA ha comunque concluso che “il rapporto rischi/benefici dei prodotti contenenti metilfenidato per il trattamento dei bambini dai 6 anni di età in su è favorevole”, ed ha raccomandato “il mantenimento dell’autorizzazione all’immissione in commercio, modificando però il riassunto delle caratteristiche del prodotto e del foglio illustrativo conformemente a quanto emerso dalla rivalutazione”. Commenta la notizia Luca Poma, giornalista e portavoce di “Giù le Mani dai Bambini®”, il più rappresentativo Comitato per la farmacovigilanza pediatrica nel nostro paese (www.giulemanidaibambini.org), che riunisce Università, ASL, Ordini dei medici ed associazioni di promozione sociale: “Delle due l’una: o l’EMEA non riconosceva i rischi del metilfenidato, o se li riconosceva – e li ha riconosciuti chiaramente – avrebbe dovuto bloccarne la commercializzazione o comunque assumere determinazioni ben più drastiche che non delle semplici modifiche al foglio illustrativo. Questa vicenda ci chiarisce una volta di più, se mai fosse necessario, chi mira a tutelare l’Agenzia Europea del Farmaco, che dipende stranamente dalla Direzione Industria e non dalla Direzione Sanità e che è continuamente bersaglio delle potenti lobby farmaceutiche: in questo caso tutela le aziende ed i loro interessi finanziari, non certamente i piccoli pazienti”. Il Ritalin®, prodotto dalla multinazionale Novartis® in questi anni è stato un vero e proprio “blockbuster”: un basso costo per confezione ha permesso la Sua diffusione massiccia nel mondo, con oltre 20 milioni di prescrizioni all’anno per sedare comportamenti “difficili” di bambini ed adolescenti e per migliorarne le performance scolastiche.
Banche Armate 2009
Banche Armate 2009
Luca Kocci – tratto da “La Voce delle Voci”, n.6 giugno 2009 - www.lavocedellevoci.it
Triplicati per le banche italiane i compensi di intermediazione sulla vendita di armi all’estero. Abbiamo letto in esclusiva la relazione. Ed ecco i dati (elenco incompleto n.d.r.)
Bnl - Bnp Paribas = 1.461 mil
Intesa S. Paolo = 851 mil
Deutsche Bank = 776 mil
Unicredit = 606 mil
Societé Generale = 431 mil
Banca Antonveneta = 217 mil
Banco di Brescia = 208 mil
Banco di Sardegna = 63 mil
Banco di S. Giorgio = 30 mil
Carige = 11 mil
Banca Popolare Emilia Romagna = 9 mil
Banca Popolare Etruria e Lazio = 7 mil
Banca nazionale del Lavoro, Intesa-San Paolo e Unicredit: sono le principali banche italiane coinvolte nel commercio di armi. Nulla di illegale - intervengono in operazioni regolarmente autorizzate - ma si tratta evidentemente di attività da non pubblicizzare troppo, tanto che sono stati gli stessi istituti di credito a chiedere al governo di non rendere pubblica la Relazione del ministero dell'Economia e delle Finanze su esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, che invece la Voce ha potuto leggere. E le "banche armate", sulla scia del grande aumento dell'export di armi made in Italy e sfruttando l'onda lunga dell'aumento delle spese militari sostenuto dal governo di centro-sinistra di Prodi (+ 22%, in due anni), hanno fatto grandi affari, triplicando i «compensi di intermediazione» che hanno incassato dai fabbricanti di armi.
Nel corso del 2008, infatti, sono state autorizzate 1.612 «transazioni bancarie» per conto delle aziende armiere, per un valore complessivo di 4.285 milioni di euro (nel 2007 erano state la metà, 882, per 1.329 milioni). A questi vanno poi aggiunti 1.266 milioni per «programmi intergovernativi» di riarmo (cioè i grandi sistemi d'arma costruiti in collaborazione con altri Paesi, come ad esempio il cacciabombardiere Joint Strike Fighter - Jsf - per cui l'Italia spenderà almeno 14 miliardi nei prossimi 15 anni), quasi il doppio del 2007, quando la cifra si era fermata a 738 milioni. Un volume totale di "movimenti" di oltre 5.500 milioni di euro, per i quali le banche hanno ottenuto compensi di intermediazione attorno al 3-5%, in base al valore e al tipo di commessa.
La regina delle "banche armate" è la Banca Nazionale del Lavoro (del gruppo francese Bnp Paribas) con 1.461 milioni di euro. Al secondo posto si piazza Intesa-San Paolo di Corrado Passera, già braccio destro di Carlo De Benedetti ed ex amministratore delegato di Poste Italiane, con 851 milioni (a cui andrebbero aggiunti anche gli 87 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia , parte del gruppo), per lo più relativi a «programmi intergovernativi»: il cacciabombardiere Eurofighter, le navi da guerra Fremm e Orizzonte, gli elicotteri da combattimento Nh90 e diversi sistemi missilistici.
Eppure due anni fa il gruppo aveva dichiarato che, proprio per «dare una risposta significativa a una richiesta espressa da ampi e diversificati settori dell'opinione pubblica che fanno riferimento a istanze etiche», cioè la campagna di pressione alle banche armate, avrebbe sospeso «la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d'arma pur consentite dalla legge».
«Si tratta di transazioni relative a operazioni sottoscritte e avviate prima dell'entrata in vigore del nostro codice di comportamento e che dureranno ancora a lungo», è la spiegazione che fornisce Valter Serrentino, responsabile dell'Unità Corporate Social Responsibility di Intesa-San Paolo. Anche Unicredit negli anni passati aveva ripetutamente annunciato di voler rinunciare ad appoggiare le industrie armiere, eppure nel 2008 è stata la terza "banca armata" italiana, con 606 milioni di euro. Nessuna dichiarazione di disimpegno invece da parte della Banca Antonveneta, che lo scorso anno ha movimentato 217 milioni. Mentre piuttosto ambigua è la situazione del Banco di Brescia: nel 2008 ha gestito per conto delle industrie armiere 208 milioni di euro benché il gruppo di cui fa parte dal 1 aprile 2007, Ubi (Unione Banche Italiane), nel suo codice di comportamento abbia stabilito che «ogni banca del gruppo dovrà astenersi dall'intrattenere rapporti relativi all'export di armi con soggetti che siano residenti in Paesi non appartenenti all'Unione Europea o alla Nato» e che «siano direttamente o indirettamente coinvolti nella produzione e/o commercializzazione di armi di distruzione di massa e di altri armamenti quali bombe, mine, razzi, missili e siluri».
«La policy del gruppo non vieta le operazioni di commercio internazionale - spiega Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility di Ubi - ma le disciplina prevedendo che il cliente della banca», cioè l'industria armiera, non si trovi «in Paesi che non appartengano alla Ue o alla Nato, e questo divieto è pienamente rispettato».
Ma i dubbi restano. «Da quando, lo scorso anno, è sparito dalla Relazione il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito - spiega Giorgio Beretta, analista della Rete italiano Dísarmo - è impossibile giudicare l'operato delle singole banche. Senza quell'elenco, infatti, i loro codici di comportamento non sono comprovati dal riscontro ufficiale che solo la Relazione del governo può fornire».
Luca Kocci – tratto da “La Voce delle Voci”, n.6 giugno 2009 - www.lavocedellevoci.it
Triplicati per le banche italiane i compensi di intermediazione sulla vendita di armi all’estero. Abbiamo letto in esclusiva la relazione. Ed ecco i dati (elenco incompleto n.d.r.)
Bnl - Bnp Paribas = 1.461 mil
Intesa S. Paolo = 851 mil
Deutsche Bank = 776 mil
Unicredit = 606 mil
Societé Generale = 431 mil
Banca Antonveneta = 217 mil
Banco di Brescia = 208 mil
Banco di Sardegna = 63 mil
Banco di S. Giorgio = 30 mil
Carige = 11 mil
Banca Popolare Emilia Romagna = 9 mil
Banca Popolare Etruria e Lazio = 7 mil
Banca nazionale del Lavoro, Intesa-San Paolo e Unicredit: sono le principali banche italiane coinvolte nel commercio di armi. Nulla di illegale - intervengono in operazioni regolarmente autorizzate - ma si tratta evidentemente di attività da non pubblicizzare troppo, tanto che sono stati gli stessi istituti di credito a chiedere al governo di non rendere pubblica la Relazione del ministero dell'Economia e delle Finanze su esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, che invece la Voce ha potuto leggere. E le "banche armate", sulla scia del grande aumento dell'export di armi made in Italy e sfruttando l'onda lunga dell'aumento delle spese militari sostenuto dal governo di centro-sinistra di Prodi (+ 22%, in due anni), hanno fatto grandi affari, triplicando i «compensi di intermediazione» che hanno incassato dai fabbricanti di armi.
Nel corso del 2008, infatti, sono state autorizzate 1.612 «transazioni bancarie» per conto delle aziende armiere, per un valore complessivo di 4.285 milioni di euro (nel 2007 erano state la metà, 882, per 1.329 milioni). A questi vanno poi aggiunti 1.266 milioni per «programmi intergovernativi» di riarmo (cioè i grandi sistemi d'arma costruiti in collaborazione con altri Paesi, come ad esempio il cacciabombardiere Joint Strike Fighter - Jsf - per cui l'Italia spenderà almeno 14 miliardi nei prossimi 15 anni), quasi il doppio del 2007, quando la cifra si era fermata a 738 milioni. Un volume totale di "movimenti" di oltre 5.500 milioni di euro, per i quali le banche hanno ottenuto compensi di intermediazione attorno al 3-5%, in base al valore e al tipo di commessa.
La regina delle "banche armate" è la Banca Nazionale del Lavoro (del gruppo francese Bnp Paribas) con 1.461 milioni di euro. Al secondo posto si piazza Intesa-San Paolo di Corrado Passera, già braccio destro di Carlo De Benedetti ed ex amministratore delegato di Poste Italiane, con 851 milioni (a cui andrebbero aggiunti anche gli 87 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia , parte del gruppo), per lo più relativi a «programmi intergovernativi»: il cacciabombardiere Eurofighter, le navi da guerra Fremm e Orizzonte, gli elicotteri da combattimento Nh90 e diversi sistemi missilistici.
Eppure due anni fa il gruppo aveva dichiarato che, proprio per «dare una risposta significativa a una richiesta espressa da ampi e diversificati settori dell'opinione pubblica che fanno riferimento a istanze etiche», cioè la campagna di pressione alle banche armate, avrebbe sospeso «la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d'arma pur consentite dalla legge».
«Si tratta di transazioni relative a operazioni sottoscritte e avviate prima dell'entrata in vigore del nostro codice di comportamento e che dureranno ancora a lungo», è la spiegazione che fornisce Valter Serrentino, responsabile dell'Unità Corporate Social Responsibility di Intesa-San Paolo. Anche Unicredit negli anni passati aveva ripetutamente annunciato di voler rinunciare ad appoggiare le industrie armiere, eppure nel 2008 è stata la terza "banca armata" italiana, con 606 milioni di euro. Nessuna dichiarazione di disimpegno invece da parte della Banca Antonveneta, che lo scorso anno ha movimentato 217 milioni. Mentre piuttosto ambigua è la situazione del Banco di Brescia: nel 2008 ha gestito per conto delle industrie armiere 208 milioni di euro benché il gruppo di cui fa parte dal 1 aprile 2007, Ubi (Unione Banche Italiane), nel suo codice di comportamento abbia stabilito che «ogni banca del gruppo dovrà astenersi dall'intrattenere rapporti relativi all'export di armi con soggetti che siano residenti in Paesi non appartenenti all'Unione Europea o alla Nato» e che «siano direttamente o indirettamente coinvolti nella produzione e/o commercializzazione di armi di distruzione di massa e di altri armamenti quali bombe, mine, razzi, missili e siluri».
«La policy del gruppo non vieta le operazioni di commercio internazionale - spiega Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility di Ubi - ma le disciplina prevedendo che il cliente della banca», cioè l'industria armiera, non si trovi «in Paesi che non appartengano alla Ue o alla Nato, e questo divieto è pienamente rispettato».
Ma i dubbi restano. «Da quando, lo scorso anno, è sparito dalla Relazione il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito - spiega Giorgio Beretta, analista della Rete italiano Dísarmo - è impossibile giudicare l'operato delle singole banche. Senza quell'elenco, infatti, i loro codici di comportamento non sono comprovati dal riscontro ufficiale che solo la Relazione del governo può fornire».
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